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Principio e concretezza. Ripensare la morale nella drammaticità delle scelte

Nell’inevitabile profluvio di parole sul conflitto in Ucraina, ho trovato tra l’interessante e il divertente – se non fosse per la drammaticità dell’argomento – il constatare come ci siano numerose posizioni discordanti in merito: c’è chi contesta l’invio delle armi ed è per la pace a tutti i costi, c’è chi sostiene che non si può fare a meno di un intervento diretto in difesa del popolo invaso e poi ci sono tutte le sfaccettature intermedie che come una scala di grigi disegnano il divario tra il bianco e il nero. Ovviamente – mi si potrebbe obiettare – ci sta anche chi sostiene che l’Occidente sia responsabile del conflitto e che la Russia si stia solo difendendo; ho deciso di non prendere nemmeno in considerazione questa ultima possibilità poiché non si fonda su nessuna base logica o razionale e in quanto – ammesso e non concesso – nessun motivo potrebbe mai legittimare una guerra di invasione.

Oltre alle opinioni fondate ora su un principio, ora su un altro, ci sono, però, anche altri aspetti degni di nota nelle tristi vicende a cui stiamo assistendo in questi giorni che hanno a che fare con le radici profonde che sottendono l’aggressione russa e possono offrirci altri spunti di riflessione. Davide Giacalone, giornalista e editorialista, sostiene che l’obiettivo di Putin non sia tanto tornare alla Cortina di ferro, quanto ad un periodo ancora più lontano, ossia l’impero zarista precedente al 1917. Dietro questo attacco ci sarebbe, infatti, un’ideologia ben precisa, ossia quella di Aleksandr Gel’evič Dugin, che vorrebbe veder riunita sotto una unica famiglia russa tutto il mondo slavo poiché solo questo può redimerli dal peccato di non aver riconosciuto Mosca come guida; fatto questo, bisognerebbe anche redimere le liberal-democrazie – cioè noi occidentali – perché non si sono accorte della deriva morale che hanno imboccato e, come ha detto anche il Patriarca di Mosca Kirill, a capo della Chiesa Ortodossa Russa, in Occidente si fa il gay pride, le sfilate dei diritti che rappresentano una deriva morale: come fate – sembrano domandare – a non vedere che questo è il decadimento morale dell’Occidente? Come fate a non accorgervi che questo decadimento porta con sé il decadimento dell’umanità intera?

Come se non bastasse, nell’anniversario dell’annessione della Crimea alla Federazione Russa del 2014, Putin ha tenuto un breve discorso nel gremito stadio di Mosca; in un passaggio ha dichiarato:

«Mi vengono in mente le parole della Sacra Scrittura: non c’è amore più grande, che dare vita per i propri amici. E vediamo come i nostri ragazzi agiscono e combattono eroicamente durante questa operazione. Queste parole provengono dalle Sacre Scritture del cristianesimo, da ciò che è caro a coloro che professano questa religione. Ma la linea di fondo è che questo è un valore universale per tutti i popoli e i rappresentanti di tutte le fedi in Russia, e in particolare per il nostro popolo, principalmente per il nostro popolo. E la migliore conferma di ciò è come combattono, come si comportano i nostri ragazzi durante questa operazione militare: spalla a spalla, si aiutano, si sostengono a vicenda e, se necessario, coprono il proprio fratello con i loro corpi da un proiettile sul campo di battaglia. Non abbiamo avuto una tale unità per molto tempo».

Due sono, allora, i piani su cui dovrà necessariamente vertere la riflessione: il primo, più strettamente etico, avrà come oggetto il problema dei principi che siamo soliti issare come bandiere e difendere strenuamente da ogni attacco; il secondo sarà, invece, un piano più etico-teologico: che succede quando il rapporto tra fede e morale, tra morale e religione, non è chiaro?

All’altare del principio

Qualcuno scrive che inviare armi in Ucraina serva solo ad alimentare il massacro, che dovremmo lasciare che l’Ucraina finisca nelle mani di Putin, che dovremmo solo negoziare, che dovremmo solo protestare nelle piazze. Questo perché la pace è a tutti i costi ed è senza le armi e, in linea di principio, sarei anche d’accordo. Il punto sta, però, proprio nella parola principio. Infatti, poi bisogna fare i conti con il reale, con il concreto, con il possibile.

Ci troviamo dinanzi ad una situazione estrema: uno stato democratico sovrano subisce l’attacco di un altro stato vedendo violato, dunque, un caposaldo della modernità, ossia la propria sovranità – cardine necessario proprio come deterrente alle guerre – e come se non bastasse, l’aggressore si rifiuta, di fatto, categoricamente di trattare, mettendo sul piatto di negoziati più di facciata che sostanziali, come unico compromesso la resa del nemico.

Senza addentrarmi ulteriormente nella questione specifica, mi pare evidente che sia necessario rimettere al centro e ripensare un sistema etico che sia veramente in grado di guidarci quando ci addentriamo nella drammaticità delle nostre scelte. Soprattutto se queste muovono i propri passi all’interno del solco teologico morale.

Verso un’etica teleologica

«Ci sono coloro che vogliono far prevalere i loro ideali sui fatti, considerando quest’ultimi poco rilevanti e rendendo i primi granitici, e ci sono coloro che praticano un sano realismo, condividendo magari gli ideali dei primi, ma non senza aver fatto prima i conti con i fatti e considerando che il miglior ideale in un conflitto tra l’ideale e l’interesse delle altre persone sarebbe quello di vedere nell’interesse per la collettività il vero ideale». (P. Cognato, Ciò di cui occuparsi senza preoccuparsi. Quando la teologia morale toglie e non aggiunge, in P.D. Guenzi (a cura di), Etica, per un tempo inedito. Una ricerca dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale, Vita e Pensiero, Milano 2020, 158.)

Posto che il principio ha una sua importanza, che sarebbe quell’optimum da perseguire, che, in sostanza, tutti vorremmo la pace e non vorremmo la guerra, non si può sacrificare la realtà sull’altare del principio. Le nostre scelte non possono non sobbarcarsi della difficoltà del conflitto valoriale, non possono essere frutto della cieca difesa di un principio che non tiene conto della concretezza e della drammaticità delle situazioni. Significa affrancarsi dalla pista deontologica per sostenere quella teleologica.

Dobbiamo, infatti, ricordarci che per realizzare un bene morale, bisogna considerare che cosa facciamo, quando lo facciamo e in che modo lo facciamo; contemplare, cioè, il conflitto considerando le conseguenze, il contesto, la realtà.

«Non è, dunque, il conflitto tra ideali quello su cui sostare quando operiamo il passaggio da un discorso kerigmatico ad un discorso etico, ma il conflitto tra ideali e interessi, l’unico su cui la teologia morale può e deve spendersi. Il ragionamento morale, che il teologo moralista deve saper maneggiare con cura, deve concentrarsi sul come conciliare interessi contrastanti, sebbene non può pretendere di far fuori chi continuerà a perseguire a discapito degli altri i propri ideali». (Ib.)

Una necessaria autonomia

C’è però anche un altro piano su cui riflettere. Infatti, le ricostruzioni alle spalle del conflitto, l’ideologia che lo muove, un certo misticismo della guerra che vede nel supposto decadimento morale l’obbligatorietà dell’intervento, il placet silenzioso della Chiesa Ortodossa Russa sono temi che non possono essere trascurati. Come si può come uomini e, prima ancora, come credenti non rimanere scioccati dinanzi alle esternazioni del Patriarca di Mosca che piega il Vangelo e la morale a servizio di un proprio principio arrivando a giustificare la guerra? Come si può restare inermi dinanzi alla Scrittura usata per incitare la folla? Che compito ha la teologia morale in questo contesto? Come può chiarire il rapporto tra fede e morale, tra religione ed etica?

Se il compito della teologia morale è «“togliere”, […] tentare di argomentare per evidenziare i conflitti valoriali e di non confondere ciò con la presentazione dell’orizzonte di senso ultimo a cui si fa riferimento, perché ciò che è necessario non è sempre sufficiente» (Ib.),se bisogna guardare alle conseguenze per non issare bandiere da difendere a tutti i costi, se bisogna affrancarsi dalla deontologia,  questo non significa affatto scadere nel situazionismo o nel più relativista dei consequenzialismi. Significa, invece, riconoscere una certa autonomia della morale che non è affatto una morale che spodesta Dio dal suo ragionamento, ma che, semmai, lo ricolloca nelle posizioni che gli sono più consone. Significa «comprendere che liberare da infondati vincoli assoluti o da massime morali basate su pregiudizi […] significa praticare la giustizia non a discapito della buona novella, ma in forza di essa». (P. Cognato, Etica teologica: sapere, affermare, spiegare, consultabile qui)

Dobbiamo, oggi più che mai, aver chiaro che l’esigenza morale non è spiegata dal Vangelo – che è parola e azione salvifica di Dio per mezzo del Figlio – che quindi può essere piegato a uso e consumo ora di questa, ora di quella norma; bensì, l’esigenza morale è resa realtà dal Vangelo, ossia è realizzata dalla persona del Figlio che per questo si erge a modello della vita morale. Ogni uomo, in quanto uomo, ha l’obbligo di vivere moralmente; tale obbligo escluderebbe una razionalità creatrice di norme, mentre ne implicherebbe una ricercatrice di giudizi morali già inscritti nella realtà stessa dell’uomo. (Cf. P. Cognato, Etica teologica. Persone e problemi morali nella società contemporanea, Dario Flaccovio, Palermo 2015, 185.)

In altre parole, «il discorso della fede […] non aggiunge un di più normativo a quanto è già possibile capire con la sola ragione, bensì reinterpreta questa razionalità come volontà creatrice di Dio e la ripresenta attraverso il proprio tessuto simbolico». (Ib., 185-186.)

Cambiare prospettiva

È allora necessario e improcrastinabile ripensare il nostro modo di fare morale, di argomentare le nostre norme, di affrancarci dalla deontologia e di chiederci seriamente: le cose sono giuste perché Dio le vuole, o Dio le vuole perché sono giuste? Se non rimettiamo a posto la prospettiva, se non ripensiamo veramente ciò che vogliamo intendere come morale, a ricercare la giustezza della cose nelle cose stesse, se non riusciamo ad essere capaci di guardare al concreto senza scadere nel relativismo, ci ritroveremo sempre a difendere principi che, per quanto validi, sacrificano sul loro altare i drammi e la carne degli uomini e delle loro storie.

Filippo Arena

Laurea Magistrale in Scienze Religiose. Master in Bioetica. Docente di Religione. Cultore di Scienze Morali.

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