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Sesso, genere, orientamento. Quando l’ideologia prevarica

Qualche tempo fa, dopo un momento di buio mediatico, è tornato alla ribalta un argomento che aveva già in passato tenuto banco a lungo: il DDL Zan. Il tanto discusso disegno di legge, definitivamente arenato in commissione, ha destato le preoccupazioni soprattutto delle destre e di gruppi cattolici, insospettiti dalla possibilità del bavaglio e dalle distinzioni effettuate dall’articolo 1.

Un bavaglio?

A proposito della prima problematica potrebbe essere sufficiente citare l’articolo 4 dello stesso DDL sul pluralismo delle idee e libertà delle scelte:

«Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

Ma se le cose stanno così, da dove ha avuto origine tanto timore, avallato anche da alcune dichiarazioni della CEI?

Credo non sia errato correlare la valutazione di legge bavaglio alla valutazione negativa a priori che si fa dei problemi toccati dal disegno di legge e, in modo particolare, alla non condivisione degli stessi gruppi delle distinzioni fatte dall’articolo 1.

Maschio e femmina li creò e l’articolo della discordia

È proprio qui, a mio modo di vedere, che risiede il grande problema valutativo. L’articolo così recita:

«Ai fini della presente legge: a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Ecco che i nodi vengono al pettine. Infatti, queste distinzioni sono considerate contradditorie con l’interpretazione del racconto delle origini genesiaco e, in particolare, con il famigerato versetto di Genesi 1,27. Ma si tratta di una interpretazione corretta? È possibile estendere il senso di queste parole – avendo magari operato una corretta contestualizzazione? Oppure ci si deve arrendere all’evidenza dell’interpretazione stringente? In altre parole: può aver senso considerare il contesto originario del testo, la cultura che lo sottende, il suo sitz im leben?

Del resto, questa è una operazione che comunemente esercitiamo quando interpretiamo la Bibbia; un esempio su tutti, utile anche a mostrare come questa non sia un prontuario morale – non dimentichiamo mai che non sono rintracciabili argomenti giustificanti le norme morali all’interno del Testo Sacro – è che Paolo mai ci dice perché ciò che addita come empio lo sia: egli lo dà per presupposto in quanto ebreo del suo tempo che scrive a destinatari capaci di comprenderlo. Per essere ancora più precisi: mai condanna la schiavitù, eppure noi oggi non ci sogneremmo minimamente di avallarla.

Perché le distinzioni ci fanno paura?

Ma torniamo alle distinzioni operate dall’articolo 1. In etica, si sa, le parole sono importanti. Molto deriva infatti dal linguaggio e dal valore polisemantico delle parole che usiamo. Ma allora perché le distinzioni ci fanno paura? Come scrive il prof. Giuseppe Trentin a proposito di un altro contesto operativo – quello eutanasico – è necessaria un’analisi rigorosa delle distinzioni:

«Come può un’affermazione descrittiva del modo in cui vengono provocate determinate conseguenze acquisire rilevanza morale? […] Per rispondere alla domanda è opportuno operare a livello linguistico una distinzione fra termini descrittivi e termini valutativi. Nelle discussioni etiche, a volte, non si tiene in debito conto tale distinzione, si dimentica cioè che il linguaggio umano ha fondamentalmente due modalità di comunicazione. La prima, di tipo descrittivo, fornisce dati, informazioni, o stabilisce nessi di causa ed effetto tra determinate azioni e le conseguenze che ne derivano. La seconda, di tipo valutativo, formula un giudizio di valore e discerne quali conseguenze siano da preferire e perché. Questa seconda è una modalità che contiene non uno, bensì due giudizi: un giudizio che rimanda a una serie di elementi empirici moralmente rilevanti; e un giudizio che viceversa rimanda a un criterio di valore in base al quale si valuta qualcosa come migliore o peggiore di qualcos’altro. Ovvio che per essere plausibili entrambi i giudizi hanno bisogno di essere provati, fondati: il primo a partire dai dati forniti dalle scienze empiriche; il secondo a partire dai valori individuati dalle scienze normative, in particolare dall’etica. Il rischio in cui si incorre a livello etico è di cadere in tautologie o circoli viziosi».[1]

Il cortocircuito, allora, deriva dal fatto che non assumiamo come descrittive le distinzioni che provengono dalle scienze empiriche e le cataloghiamo già come valutative; ma fare etica normativa senza tenere in considerazione i dati che ci provengono dalle scienze è assolutamente impossibile.

A tal proposito, allora, è doveroso ricordare che, sebbene, effettivamente, siamo abituati a classificare le persone banalmente in etero e omo, questa suddivisione è deficitaria di una distinzione necessaria tra sesso, orientamento sessuale, ruolo e identità di genere. Se l’orientamento sessuale fosse il sesso biologico, al sesso biologico dovrebbe seguire immediatamente l’orientamento sessuale. Invece, il sesso non riassume la dimensione dell’orientamento sessuale, tanto che un uomo omosessuale, pur riconoscendosi pienamente maschio, è sessualmente attratto da altri uomini. È, allora, opportuno, esaminare le variabili in gioco, le varie categorie di riferimento, le coordinate necessarie per districarsi nella definizione dell’identità sessuale (o di genere) umana.

La prima categoria è quella di sesso biologico, risultato delle componenti genetiche, somatiche e cerebrali dell’uomo; altra categoria in gioco è quella dell’orientamento sessuale, che indica semplicemente il sesso dal quale si è affettivamente e sessualmente attratti e che è dato dalla risultante del superamento del complesso edipico;[2] possiamo, inoltre, parlare di ruolo di genere per definire quei comportamenti legati ad un genere particolare – ad esempio, giocare con le bambole o con i soldatini sarebbero indice di ruoli legati a generi diversi – e di identità di genere, che indica la percezione di sé, al di là del proprio sesso biologico; a queste due componenti leghiamo il termine gender.

Il sesso biologico, il maschio/femmina, quindi, non dice tutto della persona: l’identità sessuale è il frutto di diverse e complesse componenti e della loro combinazione; tra quelle esaminante, la variabile identità è senza dubbio la più importante.

Aver operato queste distinzioni, ad ogni modo, non dice ancora nulla sulla liceità o l’illiceità di atti che ne potrebbero derivare; e, d’altro canto, anche dire che questi atti sarebbero illeciti esclusivamente per il semplice fatto che maschio e femmina li creò, sarebbe come ripetere che lo sono perché lo sono: solo una tautologia.

[1] G. Trentin, Uccidere e lasciar morire: il senso di una distinzione tradizionale, in «Etica per le professioni», 3/2018, 53.

[2] Sulla questione dell’orientamento sessuale come risultato del complesso edipico, si veda B. Brogliato – D. Migliorini, L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi, Cittadella Editrice, Assisi 2014, 75-109.

Filippo Arena

Laurea Magistrale in Scienze Religiose. Master in Bioetica. Docente di Religione. Cultore di Scienze Morali.

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