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Una nuova pastorale? Gli Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale/3

Abbiamo visto nel primo contributo come sarebbe auspicabile un recupero dell’aspetto autenticamente umano del matrimonio così da poter anche valorizzare il di più che la fede dà all’istituto sacramentale; abbiamo anche potuto constatare nel secondo contributo come l’etica non sia solo una scatola da riempire, ma come possa essere sede di verifica e validazione di una linea antropologica perché non tutte le antropologie sono umane e, quindi, fanno etica. Resta l’ultimo aspetto, quello della giuridicizzazione che l’atto sessuale ha subito nel tempo e che lo ha indissolubilmente legato – mai termini furono più adatti – a doppio filo all’istituto sacramentale.

L’etica sessuale cattolica tra diritto e morale[1]

Ci siamo domandati se la correlazione tra castità/continenza prematrimoniale e assenza di strumentalizzazione fisica, rispetto dell’individualità dell’altro e della sua dignità, assenza del possesso (cf. ICM 57) – comprensibile riguardo all’esercizio della virtù della castità – sia così immediato in relazione all’esercizio della continenza. Se il richiamo alla castità è in linea col magistero post-conciliare, bisogna infatti osservare che la coincidenza tra castità e continenza che i vari documenti operano presenta non pochi problemi. L’argomento utilizzato è l’identità tra l’area di legittimità dell’esercizio sessuale e la condizione di coniugi: i fidanzati non sono sposati e quindi sono privi dell’atto proprio degli sposi, cioè l’unione sessuale (non a caso definita dalla manualistica con actus coniugalis).

Far coincidere, però, unione sessuale intesa come uso della sessualità genitale e ambito esclusivo di utilizzo di tale sessualità, ossia il matrimonio legittimo (gamos nomimos), dotato di validità giuridica (dal punto di vista della Chiesa per i battezzati, quello valido nello specifico contesto di vita per i non battezzati), solleva molte domande. Una comprensione diversa della sessualità, infatti, ha nella modernità fatto entrare in crisi questa correlazione: si cominciò a ritenere che alcune unioni potessero essere moralmente legittime sebbene giuridicamente illegittime e viceversa: «In altre parole, si è cominciato a distinguere tra legittimità morale (fondata sulla modalità interpersonale del rapporto) e legittimità giuridica (fondato sulla spazializzazione istituzionale del rapporto) vedendo le due forme come non sempre coincidenti o pienamente sovrapponibili» (B. Petrà, Una futura morale sessuale cattolica, 13). È vero che in teoria nel matrimonio le due prospettive dovrebbero coincidere, ma la prassi ci dice che non è detto che sia così.

Anche il magistero ne è consapevole: c’è un vero e proprio cambio di prospettiva che parte da Gaudium et spes, passa per Humanae vitae e Familiaris consortio e arriva fino ad Amoris Laetitia; il matrimonio è l’istituzione dell’amore coniugale, non è solo un accordo procreativo, non sono solo doveri reciproci ma è soprattutto intima comunità di vita e di amore: «Il patto formalizza pubblicamente l’impegno di vivere nell’amore coniugale – secondo le dimensioni proprie dell’istituzione matrimoniale – ma si fonda sulla previa volontà amante ed è da essa generato» (ib., 19). La finalità procreativa è, quindi, ampiamente subordinata alla regola dell’amore perché, come dice Amoris Laetitia 80, la sessualità stessa è ordinata all’amore coniugale di uomo e donna.

Pare quindi che anche all’interno del magistero la liceità giuridica degli atti sia subordinata alla loro espressività amorosa: «L’oggettività giuridica abbisogna di essere sostanziata dal contenuto morale, altrimenti si rischia la contraddizione o l’inadeguata articolazione del discorso» (ib., 25). Lo stesso Catechismo, sebbene usi un linguaggio classico e manualistico in alcuni passaggi, al 2350, pur parlando della castità come continenza dei fidanzati, con un linguaggio sicuramente diverso, indica le unioni sessuali coniugali come «manifestazioni di tenerezza proprie dell’amore coniugale». Ora, tali atti non diventano teneri perché posti materialmente nell’istituto matrimoniale, ma, viceversa, nel matrimonio come istituto tali atti manifestano la qualità coniugale soggettiva dell’amore, cioè la tenerezza (cf. ib., 25-27). Del resto, l’esperienza insegna che si può avere matrimonio senza vero amore coniugale e vero amore coniugale tra due non uniti giuridicamente.

Ora, la Chiesa può considerare vero un amore coniugale fuori dall’istituto? Forse no, ma sicuramente anche la Chiesa sa che ciò è possibile almeno nella teoria; infatti, si ammette adesso la possibilità della non separazione di chi si è risposato (quindi in occasione prossima di peccato potremmo dire); così come, se prima i divorziati risposati nel diritto subivano l’impedimentum criminis, nel nuovo codice del 1983, recependo le novità conciliari e di Familiaris consortio, non vi è assolutamente traccia di questo impedimento; e ancora, in Amoris laetitia queste nuove unioni, un tempo considerate alla stregua dell’adulterio, godono del riferimento alla provata fedeltà come valore e non come disvalore, seppure fuori da una unione canonicamente valida (cf. ib., 27-30). Ecco perché, scrive Basilio Petrà, anche se si continua a dare per scontato che si possano avere atti sessuali solo nel matrimonio legittimamente – e canonicamente – costituito,

«anche il diritto canonico ha dovuto riconoscere che si può essere validamente sposati senza amarsi con verità coniugale esistenziale, così come la pastorale ha dovuto prendere atto che ci si può amare di piena donazione esistenziale anche senza essere legittimamente sposati: la relazione esistenziale (senso qualitativo della comunione coniugale) non coincide con la condizione giuridica e i diritti/doveri che ne conseguono, essa ha una sua consistenza propria che può coincidere con la situazione giuridica delle persone ma non necessariamente. […] Niente prova che la piena donazione esistenziale tra le persone si dia solo e necessariamente all’interno dei confini giuridici del matrimonio».

Norma di comunità o norma etica?

Lungi dal voler condannare con le riflessioni fin qui fatte il magistero, è però indubbio che sia necessario rintracciare nuovi orizzonti argomentativi e tenere in considerazione, almeno solo come pungolo, le provocazioni che riceviamo dal mondo che ci circonda, cattolico e no. Bisogna dare credito alla mutata sensibilità sociale del problema, in quanto le norme sono storicizzate (oggi nessuno si scandalizza se due amici si baciano per salutarsi, fino a qualche tempo fa non era così): «È possibile ritenere oggi moralmente lecito un esercizio non matrimoniale della sessualità, specie giovanile, come nuova e storicizzata espressione della relazionalità di una coppia non/non ancora sposata?» (S. Leone, Il rinnovamento dell’etica sessuale, EDB, Bologna 2017, 43).

E, ancora, non si può trascurare l’inculturazione della norma: basti pensare alla varietà tra un popolo e un altro degli usi e costumi sessuali prematrimoniali (anche all’interno dell’Israele antico); certo, non possiamo non cercare nella varietà l’elemento valoriale unificante che sia universalizzabile, ma è sicuramente necessario uno studio più attento in tal senso. Sarà utile, altresì, una valutazione personalistica delle situazioni – senza per questo scadere nel relativismo – aiutata da un più fine discernimento valutativo sui differenti gradi di eventuale soggettiva responsabilità morale. E, infine, bisognerà chiedersi:

«È possibile assimilare del tutto la coppia di cattolici a quella di non cattolici o non credenti? Pur avendo validità e portata assolutamente universali […], infatti, il senso profondo dell’“istituzione” matrimonio e quindi del prima/dopo di essa non è lo stesso. La profonda trasformazione esistenziale che comporta la celebrazione del sacramento per il credente non è in alcun modo assimilabile alla, sia pur degnissima istituzione naturale. È molto difficile legittimare il rapporto sessuale della coppia, con un vincolo morale “forte” che ne proibisca l’esercizio, solo in virtù della firma di un sindaco! Tuttavia non dobbiamo trascurare che anche la dimensione sacramentale non prescinde da quella umana. Cristo, infatti, “ha elevato” un’istituzione umana a dignità sacramentale. […] In ogni caso […] il problema di fondo consiste nell’aver confinato al matrimonio l’esercizio della sessualità genitale. Solo con una diversa valutazione dell’espressività sessuale si potranno prevedere diverse prospettive moral-teologiche anche sulla sessualità prematrimoniale» (ib., 45-46).

Ma se non riusciamo a rintracciare gravi disvalori – posto che ci riferiamo a quelle coppie stabili che magari aspettano un imminente matrimonio – come argomentiamo tale norma? È possibile che ci si trovi di fronte ad una norma di comunità più che ad una norma etica universalizzabile?


[1] Il titolo del paragrafo riprende il titolo della parte prima del volume di B. Petrà, Una futura morale sessuale cattolica. In/fedeltà all’apostolo Paolo, Cittadella, Assisi 2021. A tale volume si fa riferimento per la struttura di parte della trattazione che segue.

 

Filippo Arena

Laurea Magistrale in Scienze Religiose. Master in Bioetica. Docente di Religione. Cultore di Scienze Morali.

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