skip to Main Content

Una nuova pastorale? Gli Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale/2

Nello scorso intervento (disponibile qui), dopo la presentazione degli Itinerari (ICM), ci si è concentrati sul rapporto natura/grazia tipico dell’istituto matrimoniale, che, prima di essere sacramentale, è innanzitutto umano. Si è visto, però, che spesso questo non è chiaro e che l’autenticamente umano del matrimonio è messo tra parentesi a favore dell’aspetto esclusivamente sacramentale. La fede non sarebbe un di più, ma l’aspetto esclusivo e predominante che darebbe senso allo stesso istituto, tanto che il cammino preparatorio sarebbe alla stregua del battesimo e della vita religiosa. Nell’analisi ecclesiale questo è evidente e ogni riflessione è strettamente dipendente dai modelli celibatari religiosi.

Non è un caso che uno dei passaggi più controversi del documento – e particolarmente sotto i riflettori della stampa nonostante si tratti di una parte veramente circoscritta del testo – sia proprio quello sulla castità intesa come continenza:

«Qui, io penso, interferisce un diverso vissuto della “castità”, che crea facilmente sguardi “distorti”. Chi fa esperienza di castità come voto religioso o come vita celibataria fatica a comprendere la castità coniugale. Ne sente parlare. Ma non la esercita e perciò non la conosce. E spesso la ricostruisce in termini di continenza. Questo crea uno stacco problematico, che spesso si trasforma in parole o immagini estrinseche, moralistiche e paternalistiche» (A. Grillo – A. Siracusa, Itinerari catecumenali per gli sposi? Un dialogo su fede e matrimonio, in «Munera», disponibile qui).

Il richiamo è al Catechismo: «Le persone sposate sono chiamate a vivere la castità coniugale; le altre praticano la castità nella continenza» (CCC 2349). Il problema sta nella correlazione tra castità/continenza prematrimoniale e assenza di strumentalizzazione fisica, rispetto dell’individualità dell’altro e della sua dignità, assenza del possesso (cf. ICM 57). Ora, se tutto questo può essere vero nell’esercizio della virtù della castità, siamo sicuri sia così immediato in relazione all’esercizio della continenza?

Castità e continenza: la norma sulla sessualità

Che i pronunciamenti ecclesiali in tema sessuale abbiano sempre creato un forte dissenso tra i credenti è ormai sotto gli occhi di tutti. Ma cosa sottende la norma del magistero? Intanto, il punto di partenza è il significato antropologico dato all’atto sessuale, non sempre di unanime interpretazione:

«L’adolescente può cercarvi la conoscenza del proprio corpo e del corpo altrui; un giovane può desiderare l’emozione di un incontro occasionale; due fidanzati vogliono esprimere in pienezza il loro amore; due sposi hanno preso la decisione di avere un figlio; una persona sposata va con una prostituta per un semplice sfogo fisico. È lo stesso gesto sessuale, a cui vengono attribuiti significati alquanto diversi» (G. Dianin, Relazioni sessuali nel matrimonio e nelle unioni di fatto, in «Credere Oggi» 33 (2013) 3, 31).

La Chiesa dà a quest’atto una lettura altissima – così alta che spesso, pur di difenderla, rischia di cadere in cortocircuiti che possono dare alla sessualità un senso veramente basso, come nel caso della procreazione medicalmente assistita – partendo dal presupposto che non sia un contenitore vuoto che ognuno può riempire a piacimento, ma che contenga una ricchezza e una profondità uniche e che, pertanto, richieda una enorme responsabilità. Certo, a patto che si dia un minimo senso al rapporto, altrimenti la questione sarebbe chiusa prima ancora di cominciare. Ad ogni modo, l’atto sessuale sarebbe simbolo dell’unità dei due che vogliono essere una sola carne, espressione – di genesiaca memoria – culmine dell’amore reciproco, conoscenza che lascia un segno profondo nelle persone, gesto di fecondità non solo per il dono reciproco ma per la potenziale nuova vita che può generare.

«Il dato biologico suggerisce un significato antropologico, ricordando ai due giovani che l’atto sessuale è espressione di un dono di sé all’altro, ma anche di un dono dei due alla vita e alla responsabilità nei suoi confronti. Significato unitivo e procreativo non vanno pensati in termini separati né di subordinazione, ma di interdipendenza» (ib., 31-32).

Secondo questa visione, sarebbe solo la stabilità matrimoniale – dove l’atto procreativo dovrebbe potersi esprimere al meglio – a dare all’atto sessuale quel quid, quella pienezza che sarebbe assente altrove, anche in due che si amano ma nella provvisorietà, perché mancherebbe l’oggettività «di una scelta e di un patto d’amore espresso davanti all’altro, alla società e a Dio» (ib., 33).

Due sono quindi gli aspetti da considerare: uno è il significato antropologico e, dunque, la relazione tra antropologia ed etica; l’altro, ha a che fare con la validazione giuridica determinata dal contratto matrimoniale. Del primo ci occuperemo in questo contributo, del secondo nel prossimo.

L’etica non è una scatola vuota[1]

Secondo Giuseppe Mazzocato, il discorso morale attuale rischia di appiattirsi sul momento normativo e sul conseguente assetto casistico; per questo tutte le teorie morali dovrebbero giustificarsi collocandosi su un orizzonte antropologico. Possiamo essere d’accordo con tale prospettiva? Che rapporto c’è tra etica e antropologia?

Scrive William Frankena che la morale è fatta per l’uomo e non l’uomo per la moralità. L’affermazione del filosofo americano dovrebbe indurci a riflettere su «cosa si intenda per finalizzazione antropologica della moralità: un orizzonte determinato e sottoposto all’uomo oppure un fine a cui l’uomo deve orientarsi?» (P. Cognato, Antropologia etica fede cristiana, 111). Ora, la questione non è solo antropologica, così come non è solo etica; investe, piuttosto, la relazione che intercorre tra le due discipline che, dal punto di vista fenomenico sono legate a tal punto che se è vero che una visione antropologica è sorgente di una precisa visione etica, è vero anche che da una precisa visione etica si può risalire fino ad una determinata visione antropologica. Se dal fenomeno, però, risaliamo verso il fondamento, tale rapporto non sarà mai identificabile univocamente, ma dipenderà tutto dal piano logico su cui ci si pone.

Sul piano storico-descrittivo vi è un rapporto di causa-effetto e, quindi, da una precisa antropologia discende una concezione etica ben precisa come conseguenza; «È indubitabile che l’etica sia una imprescindibile dimensione antropologica. […] Questa linea […] ci permette di sostenere che “storicamente l’etica resta sempre frutto della visione che l’uomo ha di se stesso, si evolve e si involve in base a tanti condizionamenti storici e culturali”» (ib., 113). Se dal punto di vista storico-genetico l’etica è figlia di una determinata prospettiva antropologica, non sempre «le visioni antropologiche divergenti in quanto tali sono sufficienti a giustificare moralmente ogni punto di vista» (ib., 114): così si sposterebbe la relazione antropologia-etica dal rapporto causa-effetto ad una sovrapposizione tra le due «come se l’etica fosse una scatola vuota da riempire solamente» (ib.). Sebbene non sussistano problemi a sostenere che l’etica discenda da una antropologia specifica, se ne creerebbero, invece, se non specificassimo pure che non sempre l’etica è riducibile all’antropologia, che è comunque un insostituibile terreno di confronto che avvia la riflessione etica.

La teologia morale, allora, non risulta appiattita nel momento normativo – come sostiene Mazzocato – ma, anzi, dovrebbe prendere ancora più sul serio il processo di individuazione e formulazione delle norme al fine di ottenere sempre maggiore chiarezza; questo significa, inoltre, che una norma non sarà mai soddisfacente se il suo riferimento è solo una precisa antropologia. Tutto questo, naturalmente, porta con sé degli interrogativi quali se esista solo una razionalità etica o tante razionalità etiche – e magari tante quante sono le antropologie di riferimento –, se la razionalità etica sia la causa o la conseguenza della diversità delle concezioni antropologiche, se tale diversità legittimi come corretto qualsiasi uso della razionalità etica o proprio un non corretto uso di questa razionalità conduca a visioni antropologiche diversificate.

Sul piano etico-fondativo, se l’etica non è una scatola vuota, se una norma non può valere solo per alcuni ed essere immersa solo all’interno di una prospettiva specifica – dove magari è stata concepita – ma è oggettiva ricerca del moralmente corretto, ne deduciamo che «l’uomo etico non è un oggetto qualsiasi rilevabile a piacimento e non lo è nemmeno la scienza etica» (ib., 115). Se non ci fosse alternativa all’eteronomia, se dovessimo sempre aver bisogno di Altro rispetto all’etica per fare etica, se questo dovere, peggio, provenisse da me piuttosto che da altro da me, l’etica sarebbe solo una scatola vuota da riempire a piacimento; ma se questo dovere fosse invece lo stesso essere dell’uomo? L’etica si troverebbe in una posizione di equidistanza tra la scatola vuota dell’eteronomia e l’arbitrio assoluto dell’uomo. Questo, in altre parole, vuol dire che non c’è etica fuori dall’uomo. Sul piano etico-fondativo, allora, l’antropologia risulta eticamente dimensionata perché l’uomo è costituito dal suo essere soggetto morale; analogamente, essendo l’uomo finalizzato a realizzare il valore morale, sul piano storico, l’etica è una dimensione antropologica imprescindibile.

Queste conclusioni a cui siamo pervenuti aprono ad una affermazione che può condurre il nostro lavoro di ricerca morale: l’etica si occupa del veramente umano che non sempre è oggetto principe dell’antropologia; fondare l’etica significa, allora, perseguire questo veramente umano che coincide – e ridice – con il moralmente buono, che è il bene; l’etica, occupandosi del moralmente buono e del veramente umano, ridicendo il bene, non lo descrive; dal canto suo, l’antropologia non ha come oggetto il bene ma l’uomo – che non è scontato che sia umano, umanizzato o sempre più umano. Ma allora, e torniamo all’inizio della nostra riflessione: quante antropologie fanno etica?


[1] Devo questa espressione sull’etica al contributo di P. Cognato, Antropologia etica fede cristiana. Prolegomeni di epistemologia teologico-morale, in P. Carlotti (a cura di), La teologia morale italiana e l’ATISM a 50 anni dal Concilio: eredità e futuro. Atti del 26° Congresso Nazionale nel 50° di fondazione. Ariccia, 22-26 agosto 2016, Cittadella, Assisi 2017, 109-132.

Filippo Arena

Laurea Magistrale in Scienze Religiose. Master in Bioetica. Docente di Religione. Cultore di Scienze Morali.

Back To Top
No announcement available or all announcement expired.
Questo sito utilizza cookie per il suo funzionamento, anche di “terze parti”. Chiudendo il messaggio o navigando regolarmente dai il tuo consenso. Per conoscerne il funzionamento e bloccarli è possibile visualizzare l'informativa estesa cliccando sul link di seguito
Informativa sui cookies
Ok