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Esperienze di coscienza

C’è redenzione per Mirko? Un caso apripista

Qualche anno fa ha avuto inizio la mia esperienza professionale come insegnante con una supplenza presso una scuola proprio vicino casa, nel non semplice quartiere Sperone di Palermo. È così che ho fatto la conoscenza di Mirko, un bambino del quinto anno della scuola primaria che mi ha messo duramente alla prova. Ma il meglio deve ancora arrivare.

Quasi alla fine delle mie due ore, finalmente Mirko decide di sedersi accanto a me e con uno sguardo dall’innocenza disarmante mi chiede: «Maè, glielo dici alla maestra che mi sono comportato bene?». A questo interrogativo lo incalzo chiedendogli se secondo lui si fosse comportato bene, ma mi fa ancora la stessa richiesta. Dopo un paio di volte che Mirko avanza inesorabilmente la stessa domanda, quasi come un disco rotto, io decido di cambiare registro e gli dico: «D’accordo Mirko, io posso anche dirglielo, ma tu perché ti sei comportato così?». A questo punto, l’alunno, quasi non comprendendo il senso di quanto da me chiesto, mi risponde, con fare retorico: «Maè, sennò mi ricinu ca sugnu na fimmina».

Mi dicono che sono una femmina. Badate: non c’è alcuna volontà dispregiativa in questa affermazione. Mirko era davvero convinto che comportarsi così fosse giusto, il bene da fare; il contrario sarebbe sbagliato. Fare la femmina, con tutto il suo carico di significato, sarebbe, quindi, il male da evitare.

Non ci ho dormito la notte. Data la complessità del territorio, posto che è quasi impensabile che l’ambiente di vita di Mirko possa cambiare così drasticamente… c’è redenzione per Mirko? O è destinato a invertire giusto e sbagliato per sempre?

Individualismo imperante e schizofrenia del giudizio

Al di là della storia di Mirko, utile per riflettere sulla questione del bene e del male che vogliamo qui sinteticamente affrontare, anche nella nostra vita di tutti i giorni, fatta di situazioni magari ben meno complesse e molto più ordinarie, ad ogni modo, si possono verificare degli equivoci o dei cortocircuiti logici.

Quante volte ci lanciamo, ad esempio, in affermazioni ingiuriose, magari anche legittime, contro personaggi politici? Ma quante volte queste sono accompagnate – sebbene, magari per pudore, in momenti diversi – dall’ammissione del desiderio di poter mettere anche noi le mani in pasta? Che forse le ingiurie siano dovute al fatto che le mani sporche non sono le nostre? E quante volte abbiamo inveito contro i furbetti di tutte le categorie ma alla prima occasione abbiamo svestito i panni dell’onesto cittadino cercando di portare acqua al nostro mulino?

Spesso. Troppo spesso. Ma come è possibile questa assurda schizofrenia? E come è possibile questo individualismo imperante che non coglie minimamente l’orizzonte del bene comune?

Autonomia, eteronomia, bonum

Nel tentativo di trovare un senso a tutto questo, ritengo che il problema sia da rintracciare nel senso e nella provenienza che si dà alle norme morali. Infatti, se queste norme sembrano cadere dal cielo come una tegola, difficilmente se ne riuscirà a cogliere la portata. Il non si fa perché non si fa, oltre ad essere una tautologia, non ci permette di fare nostra la norma, cosicché diventa molto più facile aggirarla.

A questo va aggiunta anche un’altra problematica, quella del bonum, ossia dell’oggetto stesso dell’etica, «la cui leggerezza – scrive Cognato – spesso si tramuta in evanescenza».  Non potendolo provare o raggiungere unanime consenso sulla questione, ha conquistato sempre più campo, nel nostro procedere a tentoni, «l’ambito della scelta personale che oggi gode di una priorità valoriale indiscussa, ovvero la scelta, qualunque essa sia, assume la figura non solo della struttura stessa della vita etica, ma anche della natura del bonum». E quindi? Ci arrendiamo all’evidenza?

Per una esperienza originaria di coscienza

Ne dubito. All’eteronomia, va contrapposta un’autonomia della morale; si badi: non una morale nel senso di autoemancipazione ed autogoverno dei singoli, quanto piuttosto l’idea secondo cui gli esseri umani possano essere morali senza necessariamente guardare altrove, ad esempio alla propria fede – o peggio, a una cultura come la nostra che è tacciata di essere fin troppo strettamente legata ed influenzata da una fede.

È possibile questo senza cadere in una morale autonoma? A ben guardare sì: ogni essere umano, infatti, può fare una esperienza originaria di coscienza, una esperienza morale originaria, vera, semplice. Per quanto ognuno di noi possa sofisticamente interpretare con mille argomenti se esista o no un’esperienza morale – quel bonum già citato – rivolgendo la propria attenzione ora al piacere, ora al calcolo, ora alla convenienza, mai potremo dimenticare quel nudo superamento di sé che ciascun essere umano può sperimentare nella misura in cui sia spettatore o destinatario di un’azione gratuita, disinteressata, oblativa da parte degli altri. Per dirlo con le parole di von Balthasar – di certo non un sostenitore dell’autonomia della morale – «ci possono essere uomini che per qualche ragione si sono abituati a dubitare che ci sia il bene in senso autentico. […] Ma poi essi si trovano davanti all’evidenza di un’azione disinteressata […] allora per un attimo tutta la loro teoria è come dimenticata e si piegano davanti alla semplice fattualità del bene».

In altre parole: ognuno di noi prima o poi vive un momento in cui scopre il bene. Anche Mirko. In qualunque contesto e situazione di vita. E non potrà più nascondersi dietro il dito.

Ecco la luce: un’esperienza come questa, buca qualunque teoria animi i nostri intenti. Certo, potremo sempre sostenere una teoria che neghi il bene, ma sarebbe solo uno strappo su cui poniamo una toppa: l’esperienza di bene disinteressato si impone sempre ed è colta dall’intuito: per quanto io possa cercare di dimostrare il contrario, ciò è impossibile.

Filippo Arena

Laurea Magistrale in Scienze Religiose. Master in Bioetica. Docente di Religione. Cultore di Scienze Morali.

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