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Una sofferenza de-moralizzante. L’esperienza cristiana

La maledizione del cristianesimo

«Il cristianesimo ha necessità della malattia, pressappoco allo stesso modo in cui per la grecità è necessaria una sovrabbondanza di salute – rendere malati è la vera risposta intenzione dell’intero sistema procedurale salvifico proprio della Chiesa […] Noi altri, che abbiamo il coraggio della salute e anche del disprezzo, abbiamo pure il diritto, noi, di disprezzare una religione che ha insegnato a fraintendere il corpo, che non vuole affrancarsi dalle superstizioni dell’anima»[1].

Con queste parole il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche colpisce con un fendente l’orgoglio di ogni pio cristiano. La maledizione del cristianesimo suona come una tremenda provocazione e suscita un immediato sdegno nei difensori della fede. Il filosofo, del resto, non lesina alcun atteggiamento dissacratorio nei confronti di una religione che, a suo modo di vedere, rovescia i valori facendone dei disvalori attraverso una morale del risentimento. Ma se fossimo costretti a dire che Nietzsche ha ragione? Se fosse, invece, riuscito ad esprimere un giudizio sul cristianesimo fondato su una lucida osservazione?

Chiaramente non possiamo leggere in modo anacronistico il pensiero di un filosofo che ha nel suo bagaglio la svalutazione, operata dall’Illuminismo, del trascendente, né è possibile scindere queste parole da tutta la sua opera filosofica. Del resto ciò che Nietzsche ha chiaro, e che riesce a vedere con una lucidità sconcertante, è un certo cristianesimo che si fa negatore degli istinti vitali e che, piuttosto, si rende portavoce di valori, quali la debolezza, la sofferenza, che nel sentire comune non trovano accettazione alcuna e che vengono intesi esclusivamente come disvalori. Il riferimento del filosofo tedesco ad un certo pensiero cristiano, in modo particolare per ciò che concerne la sofferenza, è lapalissiano.

Cristianesimo e sofferenza

Non bisogna dimenticare, a tal proposito, come l’esperienza dolorosa della sofferenza, sia essa fisica o morale, nel corso della storia della Chiesa sia stata effettivamente caricata di elementi positivi, fino ad essere considerata un vero e proprio valore.

Malgrado la volontà di fuggire da un evento tanto gravoso da incidere profondamente nel vissuto di colui che la patisce, l’esperienza del tempo dolente, inevitabilmente, colpisce l’uomo lungo l’arco della sua vita, senza alcuna distinzione di ceto, di sesso o di cultura. La sofferenza, come superamento di un precario equilibrio psico-fisico, è capace di disumanizzare l’uomo e in quanto tale si mostra come un mistero insondabile. Dinnanzi allo scandalo della sofferenza l’uomo è sempre stato provocato a dare e a darsi una risposta che potesse spiegare l’implacabile ingresso del dolore nella vita. Più che dare risposte, l’uomo ha intuito la necessità di porsi interrogativi circa il significato della sofferenza per poterne così dare un’interpretazione, per potere estrapolare un senso da ciò nella sua natura appare insensato.

Sofferenza e dolore

Sarebbe innanzitutto necessario distinguere fra due termini, sofferenza e dolore, che spesso sono utilizzati come sinonimi, ma la cui identificazione non aiuta a chiarire le sfumature del tempo dolente.

La sofferenza, come grande contenitore dell’esperienza dolorosa tout court, ha una duplice dimensione. Una dimensione oggettiva, che rappresenta il dolore in sé, sia esso fisico o morale: una sensazione dolorosa che percepiamo appunto attraverso il nostro corpo e che in qualche modo ci accomuna all’esperienza sensibile del mondo animale; ma, allo stesso tempo, ha anche una dimensione strettamente soggettiva, che fa riferimento alla capacità di elaborare l’esperienza dolorosa. Questa dimensione soggettiva è propriamente la sofferenza, ossia l’autocomprensione del proprio dolore. L’essere umano, dunque, è capace di riflettere sulla propria esperienza dolorosa.

La sofferenza è di certo uno dei temi più discussi dai sistemi filosofici e dalle religioni di ogni tempo, poiché l’esperienza dolorosa ha sempre interpellato l’uomo e sempre l’uomo ha tentato di individuare una strada per la comprensione e la spiegazione della sofferenza, in modo particolare della sofferenza dell’innocente. All’interrogativo sul perché della sofferenza, la risposta è sempre stata lacunosa.

Teologia, Bibbia, Magistero e sofferenza

Anche la teologia cristiana si è interrogata lungamente sul significato della sofferenza e benché la Sacra Scrittura non autorizzi in alcun modo un tale atteggiamento, spesso ci si è trincerati dietro la corrente del cosiddetto dolorismo per giustificare, o quanto meno per attenuare, l’altrimenti insondabile esperienza del dolore. Il dolorismo è quella corrente che, all’interno del cristianesimo, ha tentato di dare al dolore, e ancor più alla sua sopportazione eroica, un valore. Ciò è stato possibile, secondo il bioeticista Salvino Leone, a causa di un fraintendimento del significato del sacrificio di Cristo che ha portato, inevitabilmente, ad una visione riduttiva del significato dell’accettazione della volontà divina nonché ad una visione pessimistica dell’esistenza che ha condotto verso un’idea di rassegnazione che poco o nulla ha a che fare con il cristianesimo[2].

Giova ribadirlo: la Bibbia non avalla minimante le posizioni che nel tempo sono emerse da questo tipo di elaborazione teologica, anzi l’atteggiamento dei suoi grandi protagonisti della sofferenza, fra i quali ad esempio Giobbe, insegna proprio che la rassegnazione si pone al di fuori dell’ottica cristiana e che non è possibile mettere a tacere la dimensione della lotta al dolore. Lo stesso atteggiamento di Gesù di fronte alla sofferenza è antitetico rispetto alla rassegnazione.

Persino il Magistero, con la lettera apostolica di Giovanni Paolo II Salvifici doloris, mette in guardia da una lettura semplicistica e meramente moralistica della sofferenza. Sebbene infatti Giovanni Paolo II provi ad argomentare il tema della sofferenza tentando una valorizzazione della stessa, non sminuisce affatto la sua dimensione agonica nell’esistenza terrena e sottolinea come l’atteggiamento della passività di fronte alla sofferenza non trova alcun riscontro nella Sacra Scrittura (SD 30).

Nonostante quindi la posizione della Chiesa dinanzi alla sofferenza – una posizione desunta dalla Tradizione e dalla Bibbia – non sia affatto quella di un’ingenua accettazione, una certa teologia, che ancora oggi possiede una certa influenza all’interno dell’esperienza cristiana, non cessa di identificare la sofferenza e la sua sopportazione con un valore. Una lettura, troppo spiritualistica, del sacrificio di Cristo in croce, senza tenere in giusta considerazione l’elemento non certamente trascurabile della sua risurrezione, ha condotto inesorabilmente versa l’esaltazione, sic et simpliciter, dell’esperienza dolorosa. Lungo questo sentiero che ha fatto dell’uomo, capace di sopportare stoicamente il dolore, un supereroe dei nostri tempi, si è giunti ad una concezione moralistica della sofferenza.

De-moralizzazione della sofferenza

La riflessione cristiana sul tema della sofferenza, così come ha notato Nietzsche, ha di fatto dato valore a ciò che in sé non è affatto un valore, anzi è propriamente un disvalore. Ciò è potuto accadere esclusivamente perché una siffatta teologia cristiana ha rinunciato ad un’autentica riflessione teologico-morale. Difatti, ancora oggi, assistiamo ad un impoverimento della riflessione cristiana sul tema della sofferenza perché una certa teologia ha deciso di trattare l’argomento in modo moralistico anziché propriamente morale. Si è giunti, inevitabilmente, ad una riflessione debole di sofferenza, demoralizzante proprio perché de-moralizzata.

È qui, infatti, che la sofferenza, nel pensiero cristiano, è divenuta demoralizzante: nella misura in cui è stata approcciata solo in modo moralistico – e quindi è stata de-moralizzata, ossia ha fatto a meno dell’apporto di una teologia autenticamente morale – è caduta in un vicolo cieco che, nell’intenzione, seppur lodevole, di voler dare un significato all’esperienza della sofferenza, ha finito per privare questa del suo senso ultimo. Innegabilmente vi è una confusione dei piani: di certo non bisogna assolutamente sminuire l’importanza di una certa riflessione, di natura decisamente parenetica, che esorta ad accettare la sofferenza, tuttavia si rende necessario precisare che questa accettazione non deve avvenire perché la sofferenza abbia un valore in sé, ma perché si possa rintracciare nella persona che vive il suo tempo dolente una dignità in cui risiede veramente il valore. Il valore, dunque, non è nella sofferenza, ma sempre nella dignità della persona che la affronta, non senza cadute.

Prendersi cura del sofferente

Alla luce di questa ulteriore precisazione, pertanto, come deve confrontarsi la teologia con l’esperienza della sofferenza? La teologia non può che andare alla radice dell’essenza antropologica dell’uomo, ossia che l’uomo è sostanzialmente un essere che si pone in relazione. La sofferenza non può avere un valore in sé perché mette in crisi lo stesso concetto di relazione. L’uomo sofferente sperimenta la rottura della relazione con Dio e con l’altro uomo. Nel dolore persino Dio sembra rimanere in silenzio. In questo senso la sofferenza può provocare l’isolamento oppure diventare una chiamata, un grido d’aiuto – basti pensare al grido di Cristo in croce – che impone all’altro di prendersi cura del sofferente. Soltanto in questo senso la sofferenza può avere un significato salvifico. Nel superamento della sofferenza o dell’esperienza dolorosa, l’uomo dolente desidera continuare a vivere un’esistenza relazionale, nonostante il dolore e non grazie a esso[3].

Il cristianesimo, dunque, non esalta affatto la sofferenza e, così come asseriva Nietzsche, non ha la necessità della malattia. Infatti, nessuna interpretazione mistica può spiegare la sofferenza perché non c’è alcun senso nell’offrire una sofferenza a Dio. Il senso risiede, piuttosto, nel dono della propria vita nell’amore, passata attraverso il crogiuolo della sofferenza concreta.[4]

[1] F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi Edizioni, Milano 2004, 71-72.

[2] Cf. S. Leone, Bioetica e persona. Manuale di bioetica e medical humanities, Cittadella Editrice, Assisi 2020, 386-387.

[3] Cf. P.D. Guenzi, Un approccio etico-spirituale alla malattia, in «Bio-ethos», 2/2008, 71-72.

[4] Cf. E. Bianchi – L. Manicardi, Accanto al malato. Riflessioni sul senso della malattia e sull’accompagnamento dei malati, Qiqajon, Magnano 2000, 50.

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