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Samaritanus bonus: contributi etici e afflato pastorale/2

Introduzione

Nel precedente articolo (disponibile qui), abbiamo esaminato l’ottimo afflato pastorale della lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede dal titolo Samaritanus Bonus: sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, pubblicate il 22 settembre scorso. In questo secondo contributo traccerò alcune considerazioni sull’argomentazione etica del documento. 

Il documento

Avevamo già anticipato nel precedente contributo come la Congregazione tracci una diagnosi della situazione: «Dinnanzi all’ineluttabilità della malattia, infatti, soprattutto se cronica e degenerativa, se la fede manca, la paura della sofferenza e della morte, e lo sconforto che ne deriva, costituiscono oggigiorno le cause principali del tentativo di controllare e gestire il sopraggiungere della morte, anche anticipandola, con la domanda di eutanasia o di suicidio assistito». E se ci trovassimo dinanzi ad un non credente? Chiaramente, trattandosi di un documento magisteriale, il problema non parrebbe essere posto in quanto il primo vero obiettivo è il Vangelo e il suo messaggio; ed è forse anche per questo che l’analisi etica che ne segue sembrerebbe essere caratterizzata da una deontologia che argomenta difendendo attraverso la mancanza di permesso.

E infatti, dopo avere correlato l’esperienza della sofferenza umana con l’esperienza del Cristo sofferente annunciatore di una nuova speranza – interessante, a tal proposito, il passaggio in cui ogni male è concentrato e riassunto dalla Croce[1] – e aver legato lo stare sotto la croce di Maria e dei discepoli allo stare accanto al malato di amici, familiari e operatori,[2] sembra arrivare la conferma a quanto avevamo supposto già nel titolo del terzo capitoletto: «Il “cuore che vede” del Samaritano: la vita umana è un dono sacro e inviolabile». 

Lungi naturalmente dal voler affermare il contrario, il punto dolente parrebbe essere ancora l’argomentazione, nonostante il punto di partenza fosse parecchio promettente e soddisfacente. Infatti, la Congregazione afferma in un primo momento che

«la Chiesa afferma il senso positivo della vita umana come un valore già percepibile dalla retta ragione, che la luce della fede conferma e valorizza nella sua inalienabile dignità. Non si tratta di un criterio soggettivo o arbitrario; si tratta invece di un criterio fondato nella dignità inviolabile naturale – in quanto la vita è il primo bene perché condizione della fruizione di ogni altro bene – e nella vocazione trascendente di ogni essere umano, chiamato a condividere l’Amore trinitario del Dio vivente […]. Così come non si può accettare che un altro uomo sia nostro schiavo, qualora anche ce lo chiedesse, parimenti non si può scegliere direttamente di attentare contro la vita di un essere umano, anche se questi lo richiede. Pertanto, sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale».

Dunque, sebbene si faccia appello al concetto di dignità, che di per sé è un argomento equivoco – «Stabilire in cosa consiste tale dignità non risolve ancora il problema di sapere in che modo essa sia rilevante per determinare la cosa giusta da fare in un contesto ben preciso» (P. Cognato, Etica Teologica, 123) –, parrebbe, ad una prima lettura, che si possa tenere conto di un conflitto valoriale in cui, naturalmente, la vita – come valore non-morale più fondamentale – avrebbe la meglio su tutti gli altri valori. Ma non è proprio così. Il perché è presto detto.

L’argomentazione etica

Innanzitutto il documento sciorina gli ostacoli culturali che oscurano il valore sacro della vita umana; secondo la congregazione c’è un uso equivoco dell’espressione dignità del morire in riferimento a quella di qualità della vita che finirebbero per identificare tale qualità solo con la presenza o l’assenza di determinate funzioni psicofisiche; c’è un’erronea comprensione della compassione che renderebbe l’eutanasia compassionevole perché per non soffrire è meglio morire; infine, il terzo ostacolo sarebbe l’individualismo crescente. Dopo di ciò, al capitoletto quinto possiamo leggere che:

«la Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente. La definizione di eutanasia non procede dalla ponderazione dei beni o valori in gioco, ma da un oggetto morale sufficientemente specificato, ossia dalla scelta di “un’azione o un’omissione che di natura sua o nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”. “L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. La valutazione morale di essa, e delle conseguenze che ne derivano, non dipende pertanto da un bilanciamento di principi, che, a seconda delle circostanze e della sofferenza del paziente, potrebbero secondo alcuni giustificare la soppressione della persona malata. Valore della vita, autonomia, capacità decisionale e qualità della vita non sono sullo stesso piano. L’eutanasia, pertanto, è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza.

È qui che sorgono alcune domande.

Consapevole – e incoraggiato! – da lettore credente che il messaggio evangelico è il primo vero obiettivo del Magistero – come ho già anticipato – mi chiedo comunque: cosa significa che l’oggetto morale è distinto dalle circostanze? Queste circostanze sono davvero così irrilevanti ai fini dell’argomentazione morale? Sono solo accidenti dell’atto o invece sono fini? O ancora conseguenze? Siamo, in sostanza, tornati al punto di partenza: di cosa stiamo parlando? Cosa intendiamo veramente per eutanasia? E che argomento vogliamo usare? Dove si trova la linea che divide eutanasie e accanimenti terapeutici? È sufficiente dire che si è contro l’eutanasia e contro l’accanimento e a favore delle cure palliative se tutte queste parole non sono ben posizionate e definite e danzano da un significato all’altro? E se intervenissero elementi moralmente rilevanti a modificare le azioni di cui stiamo dibattendo, mutando il contesto potrebbe mutare la norma? È sufficiente prospettare come soluzione il risignificare la morte su un orizzonte di vita eterna? E se questo orizzonte non c’è o vacilla? Se invece di tacciare il discernimento sul piano assiologico come falso[3] si provasse ad argomentare e rendere ragione della fondamentalità della vita rispetto agli altri valori senza negare il conflitto tra valori?

E mentre tutte queste domande girano intorno alle nostre teste, dal punto di vista dell’argomentazione etico-normativa, il documento continua a definire tutta una serie di veti e norme molto specifici. Ma siamo sicuri che basti dire, ad esempio, che l’idratazione e la nutrizione siano cure ordinarie e non terapie straordinarie? O forse questa non è la domanda etica corretta? Siamo sicuri che sia sufficiente dire che la vita è sacra e utilizzare la dignità della vita come ultima ratio del problema eutanasico? E se la domanda fosse un’altra? E se la domanda fosse capovolta? Se interpellasse noi e non il malato? Se avesse a che fare con la nostra idea di vita e con tutte le inferenze antropologiche che la caratterizzano? Non sarebbe più esaustivo dire che «ragionando sul conflitto di valori suddetto [vita e salute] è controintuitivo sostenere che il valore della vita è subordinabile a quello dell’assenza di sofferenza, [poiché,] se così fosse, logicamente parlando, non si scorgerebbe alcun motivo per cui dovremmo aspettare che una malattia grave ci colpisca per potercene privare, se è vero, come è vero, che vi sono molte sofferenze ben più gravi dello stato terminale» (P. Cognato, Etica Teologica, 117)?

Tutto questo, purtroppo, a mio avviso, sembra trovare poco spazio nel documento della Congregazione; nonostante ciò, però, non se ne possono mettere in secondo piano gli aspetti positivi che abbiamo già evidenziato precedentemente. Fermo restando la Sapienza del Magistero e la saggezza nel non volere aprire maglie in una rete che potrebbe essere più debole di quanto ci immaginiamo, ritengo che il conflitto valoriale non vada demonizzato, quanto più valorizzato, compreso e ben posizionato all’interno di ogni argomentazione etica che voglia considerarsi tale, anche e soprattutto se questa vuole essere destinata ad uscire fuori dalle cerchie delle nostre comunità cristiane.


[1] «Tutto il male fisico, di cui la croce, quale strumento di morte infame e infamante, è l’emblema; tutto il male psicologico, espresso nella morte di Gesù nella più tetra solitudine, abbandono e tradimento; tutto il male morale, manifestato nella condanna a morte dell’Innocente; tutto il male spirituale, evidenziato nella desolazione che fa percepire il silenzio di Dio».

[2] «Le cure palliative non bastano se non c’è nessuno che “sta” accanto al malato e gli testimonia il suo valore unico e irripetibile. Per il credente, guardare al Crocefisso significa confidare nella comprensione e nell’Amore di Dio: ed è importante, in un’epoca storica in cui si esalta l’autonomia e si celebrano i fasti dell’individuo, ricordare che se è vero che ognuno vive la propria sofferenza, il proprio dolore e la propria morte, questi vissuti sono sempre carichi dello sguardo e della presenza di altri. Attorno alla Croce ci sono anche i funzionari dello Stato romano, ci sono i curiosi, ci sono i distratti, ci sono gli indifferenti e i risentiti; sono sotto la Croce, ma non “stanno” con il Crocefisso».

[3] «Nel caso specifico dell’accanimento terapeutico, va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati “non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte” o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare. La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria. La proporzionalità, infatti, si riferisce alla totalità del bene del malato. Mai si può applicare il falso discernimento morale della scelta tra valori (ad esempio, vita versus qualità della vita); ciò potrebbe indurre ad escludere dalla considerazione la salvaguardia dell’integrità personale e del bene-vita e il vero oggetto morale dell’atto compiuto».

Filippo Arena

Laurea Magistrale in Scienze Religiose. Master in Bioetica. Docente di Religione. Cultore di Scienze Morali.

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